NOTA DI  COMMENTO
di
Carmine Cotini

Dal 10 al 13 settembre 2007, l’Associazione Canonistica Italiana ha rinnovato il suo annuale appuntamento congressuale nella città di Lodi, terra lombarda ricca di importanti avvenimenti storici, tra i quali si ricorda la sua rifondazione nel 1158 da parte di Federico Barbarossa, a distanza di circa mezzo secolo dalla distruzione dell’antica «Laus Pompeia». Di particolare rilevanza giuridico-sociale il tema affrontato nell’occasione: «Matrimonio canonico e ordinamento civile». Si evidenzieranno, pertanto, qui di seguito le più salienti tracce percorse.

 

1. – Matrimonio canonico e società contemporanea
In apertura dei lavori, ha tenuto la prolusione inaugurale ai congressisti Mons. Alessandro Plotti (Arcivescovo di Pisa), soffermandosi in particolare sul significato e sul ruolo del matrimonio canonico. Dopo averne ricordato taluni fondamentali richiami codiciali e conciliari relativi alla sua fondamentale essenza, ha sottolineato quindi il prelato come dagli stessi emerga il profondo rilievo sociale che esso è chiamato ineluttabilmente a svolgere nella società contemporanea, costituendone “essenziale e irrinunciabile elemento fondativo”. Ciò premesso, ha poi diffusamente affrontato il prelato, anche con toni improntati a sentita preoccupazione, un’articolata disamina circa gli ostacoli di fondo che investono ai tempi odierni l’istituzione matrimoniale, tra i quali trova innanzitutto spazio “una distorta concezione della persona e della libertà, in un contesto di autoreferenzialità che sfocia in un egocentrismo o narcisismo esasperato, che mette in crisi ogni autentica e feconda capacità di vere e sincere relazioni interpersonali”. In tale contesto – ha proseguito sul punto – “si perde anche il senso autentico del rapporto tra individuo e società, mettendo … in grave crisi il matrimonio come patto irrevocabile e indissolubile”.
Ulteriore elemento di crisi va peraltro individuato – ha osservato ancora l’Arcivescovo – nel rapporto tra matrimonio e società, ove la famiglia di piccole dimensioni ed informata a logiche individuali ha consequenzialmente ridimensionato il proprio peso e prestigio nella società, “non riuscendo a influenzarne le dinamiche socio-economiche, culturali e politiche che in misura sempre più debole”. E a ciò si associa, quale negativo corollario, il rapporto, spesso non proprio trasparente, tra istituzione matrimoniale e politica, la quale ultima giocherebbe un ruolo non efficacemente indirizzato alle superiori necessità della famiglia, rinvenendosi questa oltre misura favorita dal legislatore a livello individualistico, a scapito di una concreta tutela del carattere pubblico e sociale del matrimonio.
Al cospetto di tale analisi, approfondita nel suo itinerario con ulteriori ed attente riflessioni, nelle sue conclusioni l’Arcivescovo ha inteso infine offrire il suo personale suggerimento ovvero l’antidoto in grado di ristabilire un’auspicabile e proficua inversione di tendenza, operativamente attuabile tramite “una convergente mobilitazione dei pastori, dei canonisti, dei giuristi, degli operatori pastorali, delle famiglie sane, affinché il matrimonio canonico trovi nella società contemporanea il suo vero ruolo … perché la società in cui viviamo, corrosa dai mali che conosciamo, sappia lealmente riconoscere nel matrimonio canonico una scelta di vita veramente umana e sociale”.

 

2. – Regime concordatario e laicità dello Stato: compatibilità o contrasto?
A contenuti di rilevante interesse si sono poi rinvenute – come si accennava – le giornate congressuali, atteso il contributo giuridico-informativo offerto dai relatori che si sono avvicendati, in particolare riguardante taluni specifici aspetti della vigente disciplina concordataria sul matrimonio intervenuta tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica con l’Accordo siglato a Villa Madama in Roma il 18 febbraio 1984, a modifica della precedente disciplina di cui al Concordato Lateranense del 1929.
Nell’esaminare, pertanto, in primo luogo la compatibilità della disciplina del matrimonio concordatario con il principio di laicità dello Stato, si è constatato come lo stesso non si rinvenga affatto compromesso dai vari accordi intervenuti tra lo Stato e le confessioni religiose in Italia, ivi compreso quello intervenuto con la Chiesa cattolica, alle quali tutte è assicurata – seppur con differenziate procedure – la possibilità di far conseguire efficacia civile al matrimonio canonico. Infatti, la laicità, pur elevandosi al rango di “principio supremo dell’ordine costituzionale”, di per sé “implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale” (Corte Cost., sentenza n. 203/89). E ciò nel rispetto – come approfondisce in più recenti argomentazioni la stessa Corte – di quei fondamentali principi costituzionali di uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di religione (Cost., art. 3) e di uguale libertà davanti alla legge di tutte le confessioni religiose (Cost., art. 8), secondo i quali “l’atteggiamento dello Stato non può che essere di equidistanza e imparzialità nei confronti di queste ultime, senza che assumano rilevanza alcuna il dato quantitativo dell’adesione più o meno diffusa a questa o a quella confessione religiosa …., imponendosi la pari protezione della coscienza di ciascuna persona che si riconosce in una fede quale che sia la confessione di appartenenza”. Ciò comunque non frappone alcun ostacolo – ritiene altresì la Corte – alla “possibilità di regolare bilateralmente e quindi in modo differenziato, nella loro specificità, i rapporti dello Stato con la Chiesa cattolica tramite lo strumento concordatario (art. 7 della Costituzione) e con le confessioni religiose diverse da quella cattolica tramite intese (art. 8)” (Corte Cost., sentenza n. 508/00).
Poste tali preliminari precisazioni, è stato altresì osservato come neanche sia ravvisabile alcun contrasto con il principio di laicità il procedimento relativo alla (possibile, ma non sempre scontata) esecutività delle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio concordatario nell’ordinamento giuridico statale (c.d. delibazione), poiché lo Stato conserva comunque la sua giurisdizione esercitando – ai sensi della nuova normativa pattizia del 1984 (art. 8, n. 2) – un concreto potere di controllo su quelle decisioni in ordine al rispetto o meno del diritto di difesa delle parti nel processo canonico: un potere che è sicuramente più incisivo e penetrante rispetto alla precedente normativa del 1929 (art. 34, c. 6), la quale – viceversa – consentiva un’esecutività di ufficio totalmente sottratta al potere di disposizione delle parti stesse, anche in relazione ai provvedimenti amministrativi di dispensa dal matrimonio rato e non consumato emessi dal Romano Pontefice, i quali non sono più attualmente suscettibili di ricevere tale esecutività in quanto esclusi dalla nuova normativa concordataria, attesa la loro natura graziosa e non di giustizia.
Del resto, anche dal confronto europeo si rinviene parimenti disciplinata in svariati Concordati con la Chiesa cattolica la concessione degli effetti civili sia al matrimonio canonico che alla sua eventuale declaratoria giudiziale di nullità, purché non in violazione del divieto di trattamento differenziato senza giusto motivo delle confessioni religiose o del diritto di ogni cittadino a riconoscersi in un ordinamento informato al principio di laicità (per alcuni cenni comparativi in argomento relativi all’ambito U.E. si rinvia al paragrafo n. 8).
Ne consegue che solo in presenza di una grave e radicale violazione del diritto di difesa o di altri diritti fondamentali delle parti nel processo canonico potrebbe configurarsi una lesione del richiamato principio di laicità; ipotesi che allo stato rimane in ogni caso scongiurata, in quanto unanime e consolidato orientamento giurisprudenziale già ravvisa in quella lesione una contrarietà all’ordine pubblico, impedendo – proprio in virtù di quel preventivo controllo testé richiamato – l’ingresso nell’ordinamento dello Stato a decisioni che siano in aperto contrasto con proprie norme fondative ed inderogabili.

 

3. – Esecutività civile delle sentenze ecclesiastiche: procedura applicabile
Ciò preliminarmente constatato ed entrando i lavori più nel vivo del tema congressuale, ulteriori considerazioni sono state sviluppate sulla posizione della giurisdizione della Chiesa cattolica nell’ordinamento italiano ed sui rapporti tra essa intercorrenti con la giurisdizione civile, alla luce del nuovo assetto concordatario.
In tale ambito, oggetto di considerazione è stata peraltro la riforma del diritto internazionale privato, che ha apportato sostanziali innovazioni al procedimento di riconoscimento ed esecuzione nello Stato italiano delle sentenze straniere (Legge n. 218 del 31 maggio 1995). Essa ha caducato, infatti, il previgente procedimento giudiziario di delibazione attuabile innanzi alle Corti di appello previsto dagli articoli 796 e 797 del Codice italiano di procedura civile, per sostituirlo con un procedimento amministrativo tendenzialmente automatico da svolgersi senza particolari formalità, affidandone la competenza – ad eccezione di casi particolari – agli ufficiali dello stato civile ad istanza di parte. Si è illustrato, pertanto, come la nuova disciplina legislativa non sia applicabile – contrariamente a quanto pur aveva ipotizzato al suo esordio qualche voce isolata – al riconoscimento da parte dello Stato delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale, a favore delle quali rimane perciò in vigore la preesistente procedura delibativa attivabile presso le Corti di appello su domanda delle parti o di una di esse. E ciò per tre fondamentali motivi:
a) in primo luogo, perché già la stessa legge di riforma del 1995 specifica che le sue disposizioni “non pregiudicano l’applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l’Italia” (art. 2), tra le quali senza dubbio si annovera l’Accordo concordatario del 1984 per la sua indubbia natura di trattato internazionale;
b) in secondo luogo, per quanto si rileva dal combinato disposto dell’Accordo bilaterale tra Stato e Chiesa (art. 8, n. 2) con il suo annesso Protocollo addizionale (punto n. 4), ove tra l’altro espressamente sono richiamati i menzionati articoli 796 e 797, ai quali rimane pertanto conferita sicura forza ultrattiva ai fini della procedura giudiziaria del riconoscimento giuridico delle sentenze ecclesiastiche;
c) infine, perché una legge unilaterale ed ordinaria dello Stato non può modificare accordi intervenuti in sede bilaterale e, per di più, tutelati da copertura costituzionale, lì dove espressamente si prevede che loro eventuali modifiche necessitano della concorde accettazione delle parti contraenti (Cost., art. 7).

 

4. – Concetto di ordine pubblico nella delibazione delle sentenze ecclesiastiche
Posti tali primi dati concettuali e chiarimenti procedurali, è stato altresì ricordato – anche con accenti critici – l’orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità riguardo l’ascrizione della buona fede in ambito matrimoniale al novero dei principi di ordine pubblico internazionale; con la conseguenza di poter all’occasione essa impedire alle sentenze di nullità matrimoniale di ottenere riconoscimento in sede civile (c.d. «exequatur») per contrasto con l’ordine pubblico allorquando specificamente fondate su una fattispecie simulatoria in ordine ai «bona matrimonii» posta in essere da uno solo dei coniugi (c.d. «riserva mentale»), per la pretesa esigenza di tutelare l’affidamento incolpevole dell’altro che aveva – appunto – confidato sulla validità del vincolo che si accingeva a contrarre, ignorando l’altrui intenzione simulatoria.

A riguardo, non è mancato infatti, negli approfondimenti congressuali, chi abbia inteso sollevare non pochi dubbi e perplessità sulla opinabilità di siffatto orientamento, in primo luogo osservando come analoga tutela non venga parimenti assicurata in presenza delle altre fattispecie di nullità canonica, in cui taluno dei coniugi contraenti parimenti aveva confidato in un vincolo valido, ignaro senza alcuna sua responsabilità della sussistenza di qualsiasi altro vizio del consenso riconducibile all’altra parte, tanto più se fraudolentemente da costei celato (ad es.: incapacità, timore, errore, dolo, ecc.).
Inoltre, è stato ancora più perspicacemente rilevato come detto orientamento, tendente ad accertare l’esistenza o meno della buona fede, non solo sia privo di oggettivo riscontro nel dato legislativo statale, ma addirittura in controtendenza con lo stesso, laddove, a proposito del matrimonio putativo e dei consequenziali effetti circa la buona o la mala fede dei coniugi (artt. 128, 129 e 129-bis c.c.), espressamente prevede la possibilità della declaratoria di nullità del vincolo civile, pur in presenza della buona fede di una o entrambe le parti, senza per ciò conferire all’ordine pubblico alcuna portata ostativa. Ne consegue che in tal modo non solo si perviene a disapplicare il dato legislativo statale in caso di riconoscimento della sentenza di nullità canonica, ma anche sostanzialmente ad eludere – almeno in parte – gli impegni assunti in sede concordataria in tema di delibazione del giudicato ecclesiastico (cit. Accordo, art. 8.2 con annesso Protocollo add., punto n. 4).
Ed ancora più energiche censure sono state sollevate verso quella stessa giurisprudenza, la quale, nonostante l’adozione del (già opinabile) criterio di affidamento nelle modalità dianzi accennate, ritiene – per altro verso – che quel contrasto venga meno ed accorda, quindi, riconoscimento civile alle pronunce di nullità ecclesiastica per simulazione unilaterale allorquando il coniuge non simulante abbia inequivocabilmente conosciuto prima delle nozze le altrui escludenti intenzioni; oppure avrebbe potuto comunque conoscerle con ricorso a criteri di ordinaria diligenza; oppure infine allorquando il coniuge in buona fede si associa alla richiesta di delibazione proposta dal coniuge simulante, ovvero ne assume addirittura l’iniziativa processuale, attribuendosi a tale comportamento un’implicita rinuncia a far valere detta tutela.
Tale differenziato atteggiamento – secondo le riflessioni conclusive sul punto – si configurerebbe, pertanto, fortemente contraddittorio e sfornito di qualsiasi logica giuridica, poiché, posto che la buona fede sia effettivamente da considerarsi un principio di ordine pubblico applicabile ai rapporti matrimoniali, dovrebbe perciò ricevere tutela sempre ed in ogni caso: sia negando il riconoscimento delle pronunce ecclesiastiche a prescindere dalla fattispecie di nullità ivi accertata, sia (e soprattutto) a prescindere dalla eventuale diversa volontà dei soggetti interessati. Per di più, in relazione a quest’ultima ipotesi e stante l’attuale orientamento giurisprudenziale, si finisce di fatto addirittura per collocare l’ordine pubblico – che è per sé inderogabile ed indisponibile – nella sfera di disponibilità delle parti, con tutte le possibili ripercussioni di carattere strumentale che si potrebbero profilare nell’ambito della definizione dei rapporti interconiugali al momento della risoluzione del vincolo.

 

5. – Effetti civili della delibazione: questioni irrisolte
Quanto precede ha per di più costituito utile occasione per ampliare l’oggetto di indagine e discussione su ulteriori e strettamente connesse problematiche in materia, in particolare relative ai possibili effetti patrimoniali sui coniugi in dipendenza della declaratoria ecclesiastica di nullità del matrimonio e, più specificamente, sul confronto delle differenti conseguenze economiche che si potrebbero talvolta determinare a beneficio o a sfavore di ciascuno di essi, a seconda che sia o meno intervenuta prima della delibazione una pronuncia giudiziale di divorzio.
Problematiche che, anche in virtù dei suggerimenti proposti nel tempo sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza (ad es.: Cass. civ. Sez. Un. n. 4700/88) ed opportunamente richiamati in quest’occasione congressuale, avrebbe dovuto doverosamente risolvere il Legislatore italiano con l’emanazione di una nuova legge matrimoniale all’indomani dell’Accordo di revisione concordataria stipulato nel 1984, la quale – viceversa – per una sua inescusabile inerzia si rinviene a tutt’oggi ancora assente, sebbene neanche siano mancati taluni isolati impulsi in sede parlamentare, purtroppo tutti miseramente naufragati. Con la necessaria conseguenza che continua ad esercitare forza applicativa la legislazione matrimoniale di applicazione delle pregresse norme concordatarie del 1929 (Legge n. 847 del 27 maggio 1929), dalla quale rimangono escluse solo quelle disposizioni diversamente regolate dalla nuova normativa pattizia o che, comunque, possano risultare contrastanti con il nuovo complessivo assetto in essa convenuto.
Tuttavia, una sorta di soccorso al colpevole e reiterato silenzio del Legislatore – come è stato altresì rilevato – si è preoccupata ad un certo punto di fornirlo la stessa giurisprudenza di legittimità, inaugurando l’orientamento secondo il quale la pendenza di un giudizio di divorzio comporta “l’avvenuta devoluzione alla giurisdizione civile della questione (sia pure solo meramente incidentale) della validità del vincolo e quindi impedisce alla delibazione della sentenza canonica di determinare la cessazione della materia del contendere nel processo di divorzio stesso” (Cass. civ. n. 3345/97). Orientamento che si rinviene nel prosieguo sostanzialmente confermato – sempre al fine di garantire superiori esigenze di solidarietà familiare e di tutela del coniuge più debole, specie dopo svariati anni di convivenza coniugale e di consolidata comunione di vita tra i coniugi – con l’ulteriore precisazione che, allorquando siano intervenute in un procedimento divorzile statuizioni di natura economica, debba essere applicata “la regola generale secondo la quale, una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto …., tale spettanza non può essere rimessa in discussione …. fra le stesse parti in un altro processo, in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall’art. 2909 c.c.” (Cass. civ. n. 4202/01. Più di recente, conforme orientamento si rinviene in Cass. civ. n. 4795/05 nonché in Cass. civ. n. 24494/06).

 

6. – Sindacato penale da parte del giudice italiano in ordine a dichiarazioni rese nel processo canonico: ammissibilità o divieto?
Momenti di riflessione e di indagine giuridica sono stati ancora dedicati a taluni e più particolari aspetti, i quali, pur non costituendo in verità oggetto di frequente attenzione da parte della dottrina canonistica, nondimeno rivelano tutta loro intrinseca importanza, soprattutto in relazione alle rispettive e non coincidenti primarie finalità degli ordinamenti posti a confronto: trattasi cioè dei rapporti che possono all’occasione stabilirsi tra il processo canonico di nullità matrimoniale e il diritto penale italiano, ovvero tra l’autorità giudiziaria statale e l’autorità giudiziaria ecclesiastica. Ragion per cui, quanto mai propizio si è rivelato il tema congressuale per focalizzare l’attenzione anche in tale specifico ambito, onde individuare i confini della competenza e del sindacato penale del giudice italiano sull’operato giurisdizionale del giudice canonico, ovvero della sindacabilità o meno del primo sull’operato di tale ultimo nell’acquisizione e utilizzabilità della prova, nel caso di prova illecita con valenza penale; ed, ancora, della rilevanza e dei limiti di perseguibilità delle dichiarazioni rese dalle parti e dai testi nel processo canonico, che potrebbero integrare ipotesi di reato (ad es. diffamazione o falsa testimonianza).
Confini che, dalla comparazione della legislazione penale italiana con quella canonica, nonché della giurisprudenza italiana di merito con quella di legittimità, non appaiono assolutamente chiari ed incontestabili, soprattutto in ordine al potere di indagine concesso al giudice italiano nell’ambito del processo canonico: ad esempio disponendo – autonomamente o su espressa richiesta di una parte di quel processo – l’acquisizione o il sequestro di atti di quel processo stesso, ovvero disponendo interrogatori di qualsiasi operatore giudiziario canonico, specie allorquando questi non consegni una documentazione richiesta.
In tal caso, si potrebbe, infatti, profilare un contrasto tra le rispettive normative dei due ordinamenti giudiziari, poiché, mentre da una parte vi è l’obbligo al segreto del processo imposto ai propri operatori dall’ordinamento canonico (can. 1457, § 2  Codice canonico), dall’altra si riscontra – invece – l’opposto obbligo imposto dall’ordinamento italiano di rendere testimonianza e/o consegnare documentazione (artt. 200, 201 e 256 Codice procedura penale italiano).
Orbene: al di là della non uniformità degli orientamenti giurisprudenziali all’occorrenza espressi tra le Corti di merito e quella di legittimità, non essendo comunque agevole in questo scritto di sintesi congressuale procedere ad un’analisi effettivamente speculare e completa come l’argomento pur meriterebbe, ci si limita pertanto qui a riproporre i passaggi più significativi di un recente percorso argomentativo sviluppato dalla Corte di cassazione, secondo la quale il potere d’indagine dell’autorità giudiziaria italiana potrebbe essere all’occorrenza legittimamente espletato senza generare alcuna ipotesi conflittuale, essenzialmente per un triplice ordine di motivi:
a) perché “la richiesta di copia degli atti del procedimento giurisdizionale (canonico) non può essere considerata, in alcun modo, interferenza nella libertà di decisione del giudice ecclesiastico, dato che essa non si riferisce all’oggetto della controversia (nullità del vincolo matrimoniale), ma a dichiarazioni fatte da persone chiamate a testimoniare, che, in astratto, potrebbero integrare fattispecie di reati”;
b) perché, “trattandosi di un procedimento tendente ad una sentenza destinata ad avere efficacia nell’ordinamento italiano .., i verbali non potevano essere considerati segreti”;
c) circa poi la prova testimoniale, perché dal combinato disposto della normativa concordataria con quella specificamente statale “si deduce che non vi è una incapacità o un divieto assoluto per gli ecclesiastici di testimoniare, ma è loro conferito [soltanto] il diritto di astenersi, per i fatti conosciuti a cagione del loro ministero” (Cass. pen. n. 22827/04).

Ad onor del vero, non manca anche nella dottrina canonistica chi abbia pur tentato di contrastare tali soluzioni interpretative con argomentazioni che non appaiono in verità molto convincenti, peraltro neanche considerando che le figure criminose dianzi ipotizzate trovano parallela censura anche nel Codice canonico, ove espressamente infatti è prevista la punibilità penale sia dei comportamenti che offendano la buona fama altrui (can. 1390, § 2), sia delle dichiarazioni inveritiere (can. 1368). Perciò, per conseguenza logica, dovrebbe – almeno astrattamente – costituire interesse anche per gli organi giudiziari della Chiesa l’esercizio di un potere di controllo circa la correttezza di quanto dichiarato nel proprio ambito giudiziario (quello matrimoniale), in vista del quale l’eventuale sindacato del giudice penale statuale si affiancherebbe in via ausiliare e rafforzativa a quello del giudice canonico, in spirito di solidale e fattiva cooperazione, coadiuvandolo nel raggiungimento di quella c.d. «certezza morale» che è presupposto necessario in vista di una decisione conforme alla verità (can. 1608, § 1).
Ma, anche a voler prescindere da tali considerazioni, non si può tuttavia fare a meno di constatare che, pur nel rispetto tanto per lo Stato quanto per la Chiesa dei principi di indipendenza e sovranità di ciascuno nel proprio ordine così come garantiti dalla disciplina concordataria (art. 1) e dalla Costituzione repubblicana (art. 7.1), non sembra affatto giusto ritenere aprioristicamente che qualsiasi cosa succeda in ambito ecclesiale (beninteso: sul territorio italiano!) possa essere – sempre e comunque – sottratta alla legge statuale (e in particolare a quella penale), soprattutto quando esuli dalla sfera prettamente religiosa o confessionale, come nel caso appunto dell’attività giudiziaria e di tutto quanto ad essa collegato, in cui oggetto di eventuale valutazione da parte del giudice italiano sarebbero soltanto – come si accennava – le dichiarazioni delle parti e dei testimoni rese in giudizio (e non certamente le questioni di merito ivi affrontate), cioè di persone che sono peraltro svincolate da qualsiasi rapporto organico con l’istituzione ecclesiastica. Ciò disattenderebbe, altresì, fondamentali intenti della stessa disciplina concordataria, la quale, in sintonia con le indicazioni già in precedenza emerse dal Concilio Vaticano II, ha auspicato proprio nel suo esordio rapporti tra comunità politica e comunità religiosa informati a “reciproca collaborazione per la promozione dell’uomo e del bene del Paese” (cit. art. 1).

 

7. – Protezione dei dati personali nel processo canonico: diritto applicabile
Ulteriori considerazioni in ambito congressuale hanno altresì riguardato le modalità del trattamento dei dati personali e sensibili acquisiti nel processo canonico, in particolare per verificare se, accanto alla normativa propria della Chiesa, possa nel caso spiegare applicazione anche quella propria dell’ordinamento italiano.
Ebbene, fermo restante l’espresso richiamo – almeno in astratto –  già contenuto nel vigente Codice canonico del 1983 circa l’applicabilità delle norme civili “sui contratti in generale e in particolare” (can. 1290), il collegato Decreto Generale C.E.I. del 20 ott. 1999 disciplina con un articolato specifico la tutela del diritto alla buona fama e alla riservatezza (senza tuttavia operare alcuna distinzione tra dati personali e sensibili) ed espressamente richiama – tra l’altro – la disciplina concordataria già più volte dianzi citata, prevedendo testualmente: “L’uso dei dati personali contenuti negli elenchi e negli schedari è soggetto, nel rispetto della struttura e della finalità degli enti ecclesiastici, alle specifiche leggi dello Stato Italiano, ai sensi del comma 3 dell’art. 7 dell’Accordo che apporta modificazioni al Concordato Lateranense del 18 febbraio 1984” (art. 4, § 5).
Ciò autorizza a concludere a favore della applicabilità in ambito canonico (c.d. «canonizzazione») della legislazione italiana sulla c.d. «privacy» di cui al Decreto Lgs. n. 196 del 30 giugno 2003, seppur con talune e precise limitazioni: ad essa sarebbero infatti assoggettati soltanto i Tribunali ecclesiastici diocesani e regionali, ad esclusione di quello della Segnatura Apostolica e della Rota Romana, perché tali ultimi, sebbene situati sul territorio italiano, sono in ambito extraterritoriale, con tutte le annesse prerogative ed immunità; inoltre, dal richiamato testo concordatario, rimangono parimenti escluse le attività di religione o di culto, da considerarsi di natura prettamente confessionale e, quindi, non sindacabili da parte degli organi dello Stato.

8. – Unione Europea: regimi concordatari a confronto
Infine, è giunto a corollario delle giornate congressuali un’interessante analisi comparativa circa il c.d. «sistema matrimoniale» adottato da taluni Stati membri dell’Unione Europea, intendendosi per tale terminologia quell’insieme combinato di regole che un ordinamento civile, in sintonia con le radici religiose della società, stabilisce affinché in esso possa acquisire efficacia il matrimonio religioso, sebbene con modalità attuative non identiche tra gli stessi. Volendo qui fornire giusto qualche cenno in argomento e – in particolare – per quanto attinente al matrimonio canonico, è stato costatato come nella U.E. esistano in particolare dieci nazioni che intrattengono accordi con la Santa Sede, alcune delle quali anche con altre confessioni religiose.
Nell’ordine cronologico di stipulazione, tali nazioni sono:

  • 1979  Spagna
  • 1984  Italia (in revisione del Concordato del 1929)
  • 1993  Malta
  • 1993  Polonia
  • 1996  Croazia
  • 1999  Estonia
  • 2000  Lettonia
  • 2000  Lituania
  • 2000  Slovacchia
  • 2004  Portogallo

A seconda dell’ampiezza e del contenuto degli accordi stipulati con la Santa Sede, le anzidette nazioni possono essere catalogate in tre gruppi:
a) nazioni i cui accordi si riconducono a un sistema di tipo anglosassone, i quali conferiscono riconoscimento solo al momento celebrativo del matrimonio (Estonia e Lettonia);
b) nazioni nei cui accordi, oltre al riconoscimento del momento costitutivo del matrimonio, si ipotizza o si auspica in qualche modo l’efficacia civile delle sentenze di nullità pronunciate dai Tribunali ecclesiastici, senza prevederla in modo espresso, bensì affidandola a future intese bilaterali o a statuizioni dell’autorità statuale (Polonia, Croazia, Lituania e Slovacchia);
c) nazioni i cui accordi, seppur con talune limitazioni, si riconducono ad un sistema latino, i quali conferiscono riconoscimento sia al momento celebrativo (o costitutivo) del matrimonio, sia alla eventuale declaratoria della sua nullità accertata in sede ecclesiastica (Spagna, Italia, Malta e Portogallo).

A riguardo, si possono riscontrare in allegato due quadri sinottico-comparativi che riportano le norme concordatarie di cui ai gruppi b) e c).

A conclusione di questa veloce ma non esaustiva sintesi, è doveroso attestare come si sia trattato – nel caso – di un’assise di elevato profilo giuridico, sia per l’importanza degli argomenti affrontati sia per i contributi ermeneutici da essi scaturiti. Essi hanno suscitato e continueranno di certo a suscitare innovativi e stimolanti spunti di approfondimento e discussione nell’ambito di rapporti interordinamentali di speciale rilevanza, come quelli appunto intercorrenti tra Stato e Chiesa in Italia, soprattutto attesi i rispettivi involgenti interessi ed obiettivi, non sempre agevolmente tra loro coordinabili nell’ambito di un comune territorio.

Salerno, 18 settembre 2007

Allegati:

vedi l’allegato al gruppo 8/b)
vedi l’allegato al gruppo 8/c)